La tua stanza

Qualche anno fa decisi di andare in mezzo al bosco a trovare il mio amico Genji. A lui regalai questo nome per via degli occhi a mandorla che si ritrova: per gioco gli dissi che assomigliava al protagonista del Genji Monogatari, il racconto di Genji lo splendente, un romanzo giapponese dell’epoca Heian che lessi alcuni anni fa durante i miei studi di lingua giapponese.

Genji, il mio amico, decise di non volerne più sapere dell’uomo, della sua malvagità, della sua triste astuzia, di tutto ciò che egli ha creato sguinzagliandolo contro Madre Terra. Genji non ne poteva più di assomigliare a tutti gli altri e fece una scelta: decise di andar via. Riempì il borsone con una coperta, un sapone, un libro e una piccola scorta di cibo, prese la tenda dal garage, si mise in sella alla sua bicicletta e sparì…per giorni nessuno seppe che fine fece.

Trovai la tenda colorata di Genji poggiata su morbidi aghi di pino.

Un paio di settimane dalla sua scomparsa decisi di cercarlo tra le cortecce del bosco. I rami lasciavano passare caldi raggi di sole, cilindri di luce illuminavano particelle di polline nell’aria e la resina dei pini brillava tra le ombre degli alberi. Ed è lì che la vidi, la sua casa. Decisi di aspettarlo seduto sopra un tronco secco di eucalipto.

Sapevo che Genji non sopportava tutto ciò che inquinava e faceva rumore, ecco perché avevo preso la decisione di scendere verso il bosco raccolto in riva al mare munito di bici e di tenda: volevo passare un paio di giorni in sua compagnia e non volevo di certo contraddire la sua visione delle cose . In attesa del suo rientro iniziai a montare la mia casetta celeste accanto alla sua. Nell’aria vi era un leggero odore di sapone di Marsiglia; trovai, infatti, davanti l’uscio della sua tenda, un piccolo contenitore che aprii e che conteneva il sapone profumato, l’odore che tutt’ora conservo tra i miei ricordi. Montando la mia tenda vidi delle vivaci lucertole che mangiavano bucce di carote lasciate a terra da qualcuno. Mentre osservavo i piccoli esseri verdi ecco che il suono di pedali, ruote e raggi di bicicletta si fece vivido nell’aria e, da lì a poco, si materializzò tra le fronde la sagoma magra di Genji in sella alla sua mountain bike.

Fu una sorpresa per lui e un fluire di ricordi per me. Anni prima avevamo passato spesso del tempo insieme, ma poi le nostre strade si erano allontanate per via di studi, amicizie e città diverse. Entrambi fummo felici di rivederci e ci ritrovammo a passeggiare in riva al mare.

Sulla sabbia vi erano tappi di bottiglia, oggetti di plastica e cocci di vetro vomitati sulla spiaggia dalle onde del mare. Genji raccoglieva tutto ciò che poteva, non sopportava il fatto che tutta quella spazzatura fosse lì abbandonata.

La sua sagoma esile si chinava ogni qual volta i rifiuti abbandonati spuntavano tra i granelli della sabbia e così finii per farlo anche io perché la spazzatura era tanta e, per tutto il pomeriggio, non facemmo che pulire la spiaggia e diventò crepuscolo quando decidemmo di ritornare dentro il bosco. Tra le cortecce dei pini, lungo i vialetti ormai bui, gli dissi che in città si parlava della sua scomparsa e che forse era il caso di avvertire qualcuno del fatto che lui stesse bene. Gli rivelai la mia preoccupazione riguardo la sua alimentazione carente e per la coperta che teneva in tenda, troppo leggera per ripararlo dal freddo della notte. Cercai di convincerlo di tenere il cellulare acceso per qualsiasi evenienza e provai invano ad offrirgli del cibo e dei vestiti; ma Genji era irremovibile nelle sue scelte, non voleva parlare né di riconciliazioni, né di ritornare in città, né voleva prendere in considerazione l’idea di mangiare il cibo guasto dell’uomo. Lui voleva soltanto vivere di ciò che aveva e non aveva intenzione di discutere di altro a riguardo.

Passammo quella sera senza parlare, al buio. Mangiammo della verdura cruda e una mela e così decisi di rispettare la sua volontà rimanendo in silenzio. Con la schiena appoggiata ad un tronco mi misi a suonare il mio marranzano e di tanto in tanto alzavo lo sguardo al cielo. Tra i rami degli alberi facevano capolino le stelle luminose che bucavano il velo nero della notte. In penombra osservavo Genji seduto di fronte l’uscio della sua tenda ascoltare come me il suono delle foglie in balia del vento, le onde del mare e il canto notturno degli uccelli. Percepivo la sua presenza immobile e mi lasciai trasportare dalle emozioni che quell’incontro mi regalò.

Dopo aver lasciato alle spalle i confini del bosco , la compagnia di Genji e la notte silenziosa, mi ritrovai di nuovo tra le mura della chiassosa città.

Al mio rientro scrissi alcune parole confuse su carta che, pian piano, trovarono il loro spazio tra le righe di una canzone che chiamai La tua Stanza.

La Stanza di Genji, un posto intimo e personale che si trova dentro la sua mente.